JAZZ AGENDA

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Federico Chiarofonte: “Underbrush è un disco di esplorazione, relazioni e impegno sociale”

Pubblicato dall’etichetta GleAM Records, Underbrush è il disco d’esordio del batterista Federico Chiarofonte. Otto brani che si inseriscono nel linguaggio del jazz contemporaneo fanno parte di questa opera prima alla quale hanno preso parte il pianista Vittorio Solimene e del contrabbassista Alessandro Bintzios. Il titolo fa riferimento “tanto a un sottobosco interiore, come luogo sicuro in cui avvengono riflessioni, quanto a un sottobosco sociale nascosto e all’interno del quale si sviluppano forme floride di cultura ed ecosistemi musicali.” Ne parliamo a tu per tu con il leader di questo progetto.

Federico, er cominciare l'intervista parliamo subito del disco: ti va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Underbrush è un disco di esplorazione che viene composto in un periodo anch’esso di esplorazione personale, di relazioni e impegno sociale, musicale, artistica o semplicemente interiore. La ricerca non parte necessariamente dall’estetica del suono ma vi ci approda facendo riferimento al jazz contemporaneo sporcato con suggestioni provenienti da ambienti musicali esterni ma non estranei ad esso. Come è tradizione nel jazz, ho voluto lasciare molto spazio all’improvvisazione e alle identità dei musicisti quindi praticamente in tutte le tracce è possibile ascoltare il lavoro di interpretazione del materiale tematico da parte di Vittorio e Alessandro. Gli otto capitoli che compongono il disco sono basati su suggestioni musicali, letterarie, su esperienze personali reali o oniriche, narrano di luoghi in cui sono stato o sono appunti emotivi che mi hanno aiutato a fissare alcuni momenti del passato recente. Il consiglio è ascoltare ogni brano come se si osservasse da vicino una piccola forma di vita muoversi nel suo ambiente.

Raccontaci adesso la tua storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

Ci siamo incontrati per caso in un pomeriggio di luglio 2022 per suonare qualche standard senza impegno. Alla fine della session Vittorio e Alessandro hanno chiesto se qualcuno aveva qualcosa da suonare a prima vista, così ho frugato nella borsa dei piatti e ho trovato per caso una parte di Mayas (brano che avevo composto tempo prima per un’altra formazione). I ragazzi hanno suonato senza difficoltà e con gusto il brano, avevo il telefono in registrazione e ritornando a casa ho riascoltato per curiosità quello che avevamo suonato e scoprendo con grande felicità e sorpresa che il sound del trio mi interessava molto. Così ho deciso di chiedere ad Alessandro e Vittorio di impegnarsi in un progetto con brani composti da me e hanno accettato. Da quel momento ho cominciato a orientare la scrittura quasi esclusivamente al trio, tenendo presente le sensibilità e le possibilità sonore del gruppo. Ci siamo incontrati con più regolarità nei pressi della registrazione del materiale, poi abbiamo inciso gli otto brani a ExtraBeat Recording Studio di Clive Simpson, a Roma, dove ci siamo trovati benissimo professionalmente e umanamente. Una volta registrato il disco sono entrato in contatto con La GleAM Records e ho lavorato insieme ad Angelo Mastronardi all’uscita del disco che è stato pubblicato il 22 Marzo 2024.

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per voi cosa rappresenta?

E’ un insieme delle cose. Da un punto di vista personale i brani racchiudono e descrivono un periodo importante della vita. Dal punto di vista del gruppo, al contrario, la pubblicazione e il lavoro effettuato per questo disco rappresenta un punto di partenza per la scoperta delle potenzialità sia dei brani che dell’interazione del trio all’esterno dell’ambiente dello studio e per comprendere ancora più a fondo le possibilità offerte dalle personalità dei musicisti in relazione a questo tipo di repertorio. Alla luce del lavoro fatto fino ad ora ho già cominciato, anche se con tutta calma, a immaginare e scrivere della nuova musica per questa formazione.

Se parliamo dei tuoi riferimenti musicali cosa ti viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per te sono stati davvero importanti?

Come musicisti siamo esposti sia come spettatori che come esecutori a sonorità di ogni tipo. Il mio rapporto con il jazz è nato grazie a Birth of the Cool di Miles, a Love Supreme di Coltrane e all’energia dell’hard bop, le sonorità del secondo quintetto (sempre di Miles) e la produzione degli anni ’60 di Shorter sono centrali per tutti i musicisti di jazz che ho conosciuto. Underbrush è stato scritto quando nelle orecchie c’erano le sonorità di musicisti contemporanei di cui subiamo, positivamente, il fascino: i trii di Danny Grissett, di Micah Thomas, Bond: The Paris Session e Happening: Live at the Village Vanguard di Gerald Clayton, Uneasy di Vijay Iyer, 12 Little Spells e Songwrights Apothecary Lab di Esperanza Spalding, Deadeye di Reinier Baas… la lista sarebbe lunga! Per quanto riguarda ciò che non gravita esattamente intorno al jazz posso citare soprattutto Ravel con il Trio in La minore M. 67 e Daphnis et Chloé, la Piano Sonata No. 5 Op. 53 di Scriabin, il Pierrot Lunaire e la Suite per Piano Op. 25 di Schoenberg e i Radiohead tutti.

Ci sono poi tutti i musicisti, giovani o meno, che fanno parte della scena musicale che viviamo ogni giorno, Underbrush parla anche e soprattutto di questo. Avendo la musica una componente sociale e culturale molto forte, lo stile e il gusto dei musicisti si sporca di e a sua volta sporca l’idioma territoriale: una sorta di “dialetto del jazz” creato da generazioni di musicisti che hanno vissuto e suonato in un luogo specifico. In questo senso il gruppo di musicisti colleghi, soprattutto giovani, che si trovano a Roma è stato fonte di grande ispirazione per la creazione di questo lavoro, potrei citarne alcuni ma sono davvero tanti e tutti molto bravi e con idee fantastiche.

Come vedete il tuo progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate tua musica?

Come ho già detto, ho cominciato a scrivere con calma della nuova musica per il trio. Considero questa formazione un organismo vivente in via di sviluppo sia come gruppo che grazie alle evoluzioni proprie ed inevitabili dei musicisti che ne fanno parte. L’idea è quella di stabilire una collaborazione duratura nel tempo che possa occuparsi di nutrirsi ed interpretare i nuovi stimoli proposti: è difficile fare previsioni certe!

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: hai  qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Stiamo lavorando alla presentazione del nostro lavoro in più luoghi possibile. Il concerto di presentazione per Roma si è tenuto al Cantiere, in via Gustavo Modena nella rassegna organizzata dal collettivo Agus, un collettivo di musicisti con base a Roma. Abbiamo altre date nella Capitale e stiamo valutando altre possibilità, anche con Angelo Mastronardi di GleAM, per far ascoltare il progetto anche fuori dal Lazio. Nel frattempo siamo tutti impegnati con altri progetti in parallelo, Alessandro e Vittorio seguono molte altre bellissime formazioni e hanno i loro progetti da leader che vi invito ad andare a ascoltare!

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Nicola di Tommaso, Learn something new: 'La musica è un continuo percorso di ricerca'

Si intitola Learn Something New l'ultimo disco del chitarrista Nicola di Tommaso pubblicato rexwntemente dall'etichetta Filibusta Records. Un lavoro in cui la tradizione si fonde con il jazz contemporaneo, esplorano nuovi linguaggi anche grazie all'utilizzo dell'elettronica. Hanno partecipato alla nascita di questo nuovo progetto Vittorio Solimene, all’organo hammond e synth, Matteo Bultrini alla batteria e il guru di consolidaa fama Luca Spagnoletti all’elettronica. Ecco il racconto di Nicola Di Tommaso.

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: ti va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Ci provo! Avevo in mente da tempo di registrare un disco in cui convivessero diverse idee e campi sonori. In "Learn something new" suono brani che esplorano l'horgan trio più legato alla tradizione e brani che riflettono i più recenti sviluppi del jazz; in più ho voluto coinvolgere Luca Spagnoletti, in arte Pixfoil, che ha aggiunto al lavoro suoni provenienti dalla musica elettronica. Anche il suono della chitarra modula in base ai brani. Il basso/contrabbasso non è presente in nessun brano: Vittorio Solimene suona il basso con l'horgan e con il synth e anche questo contribuisce a dare un suono particolare a tutto il disco. Oltre a ciò, mi interessava anche mantenere il più possibile la spontaneità tipica del jazz. Il disco è stato tutto registrato live facendo massimo un paio di take a brano.

Raccontaci adesso la vostra storia: come è nato questo progetto e come si è ewvoluto nel tempo?

E’ molto semplice, siamo tutti amici e suoniamo insieme da diverso tempo in diverse formazioni. Dopo diverse session tra di noi, mi è cominciata a ronzare in testa l’idea di registrare un disco con questa formazione perchè ero molto soddisfatto della musica che ne veniva fuori e credo che probabilmente fosse un desiderio che avevo da tempo. In più Vittorio Solimene suona anche synth e tastiere, quindi la possibilità timbrica era molto ampia e questo mi ha convinto ulteriormente. La registrazione del disco è stata naturale come una “suonata” tra amici.

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per voi cosa rappresenta?

Potremmo dire che per me rappresenta tutte e tre queste cose. Sicuramente si può dire che sia una fotografia di un momento, dato che abbiamo registrato i brani di getto in un solo giorno. È un punto di arrivo, perché è il coronamento di un obiettivo che mi ero dato. D'altra parte, io vivo la musica come un continuo percorso di studio e di ricerca, quindi per me dopo un obiettivo ne viene sempre un altro. Anche perché osservando un risultato raggiunto puoi prendere coscienza delle cose che non ti piacciono, di quelle che vorresti fare meglio e così migliorarti. Per questo vedo il disco anche come un punto di partenza.

Se parliamo dei tuoi riferimenti musicali cosa ti viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per te sono stati davvero importanti?

Parlare di riferimenti musicali è molto difficile, siamo influenzati da molte cose e spesso non ne siamo nemmeno pienamente consapevoli. Per me è importante non scegliere le proprie influenza in maniera razionale o fideistica, bensì capire le proprie inclinazioni e rispettarle. Per me è molto difficile scegliere dei nomi, sono influenzato da artisti di cento anni fa come da artisti più giovani di me, ma ci provo. Innanzitutto mi sento un jazz nerd e quindi conosco benissimo i dischi dei grandi del passato. Una grande influenza per me è poi Kurt Rosenwinkel e in maniera ancora più ampia Brad Mehldau. Mehldau ci insegna che possiamo vivere la musica eliminando le barriere che a volte si creano tra i generi musicali.
 
Come vedi il tuo progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla tua musica?
 
Staremo a vedere cosa succede! Sono certo che continuerò a scrivere musica nuova e suonarla con questo trio. Vedo un nuovo disco per il futuro. Vittorio Solimene e Matteo Bultrini sono due musicisti straordinari e suonare con loro è una fonte di crescita e ispirazione, quindi mi sento molto stimolato nel portare avanti questo progetto. Le evoluzioni che vedo, e che spero si realizzeranno, sono di scrivere senza pensare di dover rispettare un genere musicale, abbracciando idee provenienti da qualsiasi stile. 
 
Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: hai qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?
 
Abbiamo in programma concerti in giro per la capitale e non. Lavoriamo a qualche presentazione e a fare conoscere il nostro lavoro. Come detto, di sicuro ci sarà un nuovo disco per questo gruppo. Nel frattempo altri dischi verranno registrati dai singoli musicisti del trio in qualità di leader e side man, quindi potete seguire anche le attività dei singoli musicisti. 
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Passaggi, un disco di Giovanni Palombo: quando il Mediterraneo incontra il jazz europeo

Si intitola Passaggi il nuovo disco di Giovanni Palombo uscito il 21 febbraio 2024 per l’etichetta Emme Record Label. Un lavoro in cui il jazz incontra la musica popolare, accostandosi alla tradizione mediterranea e tracciando una rotta piena di contaminazioni e miscele culturali. Brani intimi, dal grande senso melodico, maturati in alcuni anni grazie anche all’interazione sempre efficace e coesa tra i componenti del gruppo Camera Ensemble. La formazione vede il leader alla chitarra acustica o classica, Gabriele Coen al sax soprano e al clarinetto, Benny Penazzi al violoncello, ma ci sono brani anche in duo e in solo. Ecco il racconto di Giovanni Palombo a Jazz Agenda.

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: Cosa è cambiato rispetto al disco precedente?

Il concetto musicale base del disco resta lo stesso, cioè gli elementi fondanti delle composizioni, l’amalgama di elementi musicali che spontaneamente arrivano dal mio vissuto musicale. Quindi le sonorità mediterranee e il jazz europeo, e poi il suono acustico. Tuttavia ho voluto dare più voce al mio strumento, alla chitarra, con la quale ho inciso in solo ben 4 brani su 10, più 2 duetti chitarra pianoforte. Questa è la differenza principale, che sposta un po' il baricentro sonoro di parte del lavoro. In generale direi che c’è più continuità che non differenza. Aggiungo che considero i musicisti con cui suono da anni, Gabriele Coen, Benny Penazzi, Francesco Savoretti, un riferimento continuo e importante, e fonte di ispirazione e sicurezza.

Un disco dove il jazz incontra la musica popolare. Ti va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Questo sarebbe un argomento ampio, ma in poche parole penso che in generale il jazz abbia una connotazione molto ampia. C’è il grande mare del jazz afro americano e americano, quello a cui in generale ci si riferisce quando si parla di jazz. Poi ci sono le forme che il jazz prende quando incontra altre culture, quando avviene un incontro prolifico tra i linguaggi e lo strato profondo di una cultura, quella che i musicisti si portano dentro anche inconsapevolmente. Per me è stato indicativo in questo senso il jazz prodotto dalla etichetta ECM dagli anni ’70 in poi, era evidente che nella musica prodotta dalla etichetta tedesca c’era il senso di altre musiche, pur rimanendo jazz. I musicisti che suonavano quella musica, anche quando erano americani, quasi sempre riflettevano anche linguaggi e culture europee, echi di la musica classica, di folk del nord Europa. Troviamo in alcuni casi anche l’incontro con sonorità più orientali e delle zone del mediterraneo. Piano piano questa onda è arrivata anche nel sud dell’Europa, fino a noi. La melodia, il cantare della musica inteso non necessariamente come canzone, è uno dei tratti principali della musica italiana e mediterranea, anche fuori dal contesto canzone. Noi ci portiamo dentro questa tradizione, ma anche ritmi e forme musicali, e offriamo questo all’incontro con il linguaggio nuovo (nuovo per noi, in una prospettiva storica), del jazz. Il termine popolare per me significa il senso musicale stratificato che abbiamo dentro, che ci appartiene anche inconsapevolmente.

Raccontaci adesso il tuo percorso musicale: come ti sei avvicinato al jazz e perché hai scelto di declinarti a una contaminazione con la musica popolare?

Musicalmente mi sono formato studiando chitarra classica e suonando parallelamente un po' di rock. Ma anche qui quello che mi piaceva e coinvolgeva di più erano i gruppi progressive, internazionali ma anche italiani, come Premiata Forneria Marconi e Banco del Mutuo Soccorso, che se ci pensi riflettevano comunque la contaminazione tra i generi. E poi mi piaceva il folk e il folk rock americano e anglosassone. Un gruppo come i Pentangle inglesi mi catturarono, forse anche perché la chitarra acustica in quel contesto era uno strumento dominante, con una sonorità naturale, ma usata in modo moderno e versatile. Ho iniziato ad approfondire la chitarra acustica, un periodo forse un po' confuso perché continuavo a studiare classica, iniziavo con l’acustica, suonavo anche la elettrica nelle classiche band da cantina. E intorno ai venti anni hanno iniziato a colpirmi le orchestre jazz, ascoltate casualmente in alcuni dischi e in qualche passaggio televisivo. La bellezza e la ricchezza degli arrangiamenti, la complessità di quella musica erano affascinanti. Così ho cominciato ad ascoltare jazz, Miles Davis, Weather Report, e quando è arrivata l’onda dei chitarristi jazz moderni, Pat Metheny in testa, poi Bill Frisell e John Scofield, mi si è aperto un ulteriore mondo. La frequentazione dei concerti di Umbria Jazz è stato a quel punto fondamentale per orientarmi verso una cultura più jazz e vivere grandi emozioni. Immagino che tutto questo pian piano si sia inserito nella mia formazione e crescita musicale. La chitarra acustica è divenuta il mio strumento, e ho iniziato a sperimentarla come strumento portante dei gruppi che formavo oltre che come strumento in solo.

Parlando invece del presente a che punto pensi sia arrivato il tuo percorso musicale?

Questa è una domanda difficile. Vedere il proprio percorso dall’interno può essere fuorviante, spesso non si ha il necessario distacco. Quello che ti accade musicalmente è coinvolgente e non sempre previsto, ti può aprire strade impreviste, nel bene e nel male. Penso di avere maturato una buona capacità compositiva, e soprattutto ancora piena di spontaneità, voglio dire soggetta a quello che genericamente viene chiamata ispirazione, senza essere troppo dipendente da schemi prefigurati. Dal punto di vista stilistico gli ultimi anni non hanno portato grandi cambiamenti, ma quello che ho maturato mi sembra sia originale e riconoscibile. Sono felice della musica e degli album prodotti, ci sono sempre cose che vorresti rifare meglio, ma quanto fatto continua a piacermi.

Se parliamo dei tuoi riferimenti musicali cosa ti viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per te sono stati davvero importanti?

Direi molti, consapevolmente e no. Certi periodi di ascolti ostinati e ripetuti ossessivamente hanno certamente lasciato il segno. E qui andando proprio nel passato si va dalla West Coast americana (CSN&Y e Joni Mitchell per dire), ai Led Zeppelin e ai Genesis, per passare poi a Pat Metheny e Bill Frisell già citati, ai Weather Report e a Keith Jarrett, ma anche ai chitarristi acustici Michael Hedges e John Renbourn, al duo Tuck & Patti. Ho anche ascoltato molto e amo tuttora molto Astor Piazzolla. Anche la musica classica è stata e continua a essere un ascolto abbastanza frequente. Un nome che mi sento considerare come fondamentale e certamente influente è quello di Ralph Towner e del suo gruppo, gli Oregon, che facendo le debite differenze mi ha indicato una strada importante e decisiva.

Come vedi il tuo progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla tua musica?

In questo sono abbastanza conservatore, la cosa che mi stimola sempre è il dialogo con altri strumenti, ad esempio con quelli con i quali ho avuto poche occasioni di collaborare, come la tromba, oppure il violino, il pianoforte con cui ho suonato nel passato e che è ritornato ora in alcuni brani di questo disco e alcuni concerti. La fisarmonica, una mia vecchia passione, e anche suonare in duo con le percussioni. Scrivere sempre meglio (se possibile!) musica originale e arrangiarla ritengo sia in sé stessa una continua evoluzione, se si procede con l’intento di essere sinceri.

 

 

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La musica senza confini dei Blewitt: "Nessuna contrapposizione tra generi musicali"

 

Pubblicato recentemente dall'etichetta Neuklan, Exploring New Boundaries è il disco d'esordio dei Blewitt, da oggi anche in formato fisico. La band nasce dall'incontro di tre musicisti che hanno deciso di condividere le loro visioni musicali con l'obiettivo di compiere una sintesi tra la musica classica, il jazz e il rock. Ecco quello che raccontano a Jazz Agenda in merito a questa nuova avventura.

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: vi va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Il disco “Exploring New Boundaries” è per noi un'opera prima. Anche se è uscito dopo l’EP Ouverture, abbiamo iniziato a lavorarci molto prima. Appena ci siamo incontrati, 5 anni fa, abbiamo iniziato a lavorare su questo linguaggio comune e alcuni dei brani ed arrangiamenti sono stati scritti per buona parte nel corso di questi 5 anni. Per noi è il frutto di tanti anni di lavoro continuo, con un grande investimento di energie, tempo e risorse economiche. Nel disco ci sono racchiuse tante idee musicali, in 12 brani e 78 minuti di musica. Tutte registrate rigorosamente con Pianoforte, Basso Elettrico e Batteria. L’effettistica è al minimo, scelta che abbiamo fatto per stimolarci a cercare idee musicali non nei suoni ma nelle note. L’album rappresenta lo sforzo collettivo del trio, permettendoci di crescere sia come musicisti che come persone. Il nome dell’album, in italiano Esplorare Nuovi Confini, è anche il nostro credo. È una dichiarazione d’intenti. Siamo convinti che i confini siano solo delle linee su delle mappe, che i veri confini al massimo sono nella nostra testa. Uno dei punti cardine che abbiamo cercato di esprimere nel disco è che per noi non esiste una contrapposizione tra i vari generi musicali. Non c’è una musica “classica” contrapposta ad una “jazz”, ad esempio. I vari linguaggi possono coesistere tra loro senza troppi problemi, mostrando come siamo spesso noi musicisti a creare queste divisioni fittizie, che però non hanno alcun riscontro logico. Nella definizione etimologica di composizione c’è il concetto di disporre in maniera (più o meno) ordinata parti diverse. Ogni brano, composizione, sonata o sinfonia è il risultato di tantissimi elementi diversi di diversa natura e origine temporale. Per noi, “liberarci” di questo concetto di genere musicale ci ha permesso di esplorare con creatività cosa si può fare con un trio, senza pregiudizi e limiti. Un altro confine che vorremmo superare è quello dei confini nazionali. Suonare la nostra musica in giro per il mondo è uno degli obiettivi del trio. Questo linguaggio personale nasce anche con lo scopo di presentarsi al mondo musicale internazionale, non con una imitazione di una visione musicale americana, ma con un linguaggio che possa rappresentarci come giovani musicisti e compositori italiani ed europei.

Raccontateci adesso la vostra storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

Il gruppo nasce nel 2018, con l'idea di creare musica originale senza compromessi di natura commerciale. Vogliamo creare musica al livello più alto che riusciamo a raggiungere. Abbiamo cercato di creare un nostro linguaggio, che prendesse ispirazione sia dalle nostre radici classiche che dalle nostre radici jazzistiche e rock. Un linguaggio non limitato a un genere predefinito, in cui improvvisazione e parti scritte si intrecciano fluidamente. Si potrebbe parlare di musica “Third Stream” volendo. Il gruppo nasce proprio per dare sfogo a questa esigenza creativa di tutti e tre. Il nome del progetto è un gioco di parole. Blewitt è sia una civetta (Athene blewitti), simbolo dell’armonia e della sapienza, sia una dichiarazione di intenti. Non abbiamo paura di fare errori, in quanto crediamo che se vuoi creare qualcosa di nuovo non puoi aver paura di sbagliare. La musica che ci emoziona spesso è quella che ci porta in posti che non conosciamo. Siamo stati invitati su palchi importanti in giro per l’Europa, nel futuro vogliamo continuare a crescere musicalmente e portare la nostra musica in giro il più possibile.

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per voi cosa rappresenta?

Per noi Exploring New Boundaries è stato tutti e tre. Il lavoro di anni è sintetizzato nelle 12 tracce, brani in cui abbiamo racchiuso tantissime idee, impegno ed energie. Per il nostro primo disco abbiamo voluto dare il massimo. È anche una fotografia di ciò che siamo e dell’esperienza di registrazione in Germania e di tutto quello che ci ha portato fin lì. Uno dei significati di Exploring New Boundaries è quello di voler andare oltre i confini nazionali, e da questo punto di vista speriamo sia un inizio, un punto di partenza.

Se parliamo dei vostri riferimenti musicali cosa vi viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per voi sono stati davvero importanti?


La lista dei nostri riferimenti musicali sarebbe vastissima. L’essenza stessa del linguaggio sincretico che cerchiamo di sviluppare nella nostra musica nasce soprattutto dall’aver ascoltato e suonato tanti generi musicali. Oggi ognuno di noi ha in tasca l’intera produzione discografica mondiale, è una cosa senza precedenti che sicuramente sta avendo un forte impatto sulla musica e sui musicisti. Corea, Ravel, Shorter, Hancock, Bartok, Piazzolla, Jobim, Basie, Gordon etc. Sicuramente dai due standard di Exploring New Boundaries (più il “Fuoco di Lauridsen”) e dalle 4 cover di Con “Ouverture” ci si può fare un’idea!

Come vedete il vostro progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla vostra musica?

Sul piano musicale stiamo continuando la sperimentazione con altra strumentazione, batterie elettroniche, synth, samples, fx etc. Abbiamo iniziato con Ouverture questo tipo di esperienza e crediamo che andare oltre i confini sia anche abbracciare in toto le sonorità della Drum&Bass, EDM, Hip Hop, Trap, Trance, Ambient e in generale tutto ciò che è prodotto in the box. Exploring New Boundaries è un disco registrato completamente live, con strumentazione che in molti generi è d’altri tempi. Siamo fieri e felici della scelta fatta, sentiamo che allargare la scelta di strumentazione sia una lama a doppio taglio, ma che contemporaneamente certe sonorità si possono abbracciare veramente solo entrando in contatto con gli strumenti di quei generi. Noi crediamo profondamente che non ci siano generi musicali di serie A e di serie B, e che i migliori dischi non siano stati fatti guardando al passato ma al presente se non al futuro.

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: avete qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Sul piano concertistico stiamo progettando un tour per l’Italia per presentare il disco sul palco, esperienza a cui siamo legati e in cui diamo tutti noi stessi. Al momento stiamo scrivendo nuovo materiale, anche in luce alla collaborazione con altri artisti come Rosario Giuliani, e delle sperimentazioni “in the box”. Seguiteci sui nostri Social per maggiori news!

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La musica senza confini dei Blewitt: "Nessuna contrapposizione tra generi musicali"

 

Pubblicato recentemente dall'etichetta Neuklan, Exploring New Boundaries è il disco d'esordio dei Blewitt, da oggi anche in formato fisico. La band nasce dall'incontro di tre musicisti che hanno deciso di condividere le loro visioni musicali con l'obiettivo di compiere una sintesi tra la musica classica, il jazz e il rock. Ecco quello che raccontano a Jazz Agenda in merito a questa nuova avventura.

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: vi va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Il disco “Exploring New Boundaries” è per noi un'opera prima. Anche se è uscito dopo l’EP Ouverture, abbiamo iniziato a lavorarci molto prima. Appena ci siamo incontrati, 5 anni fa, abbiamo iniziato a lavorare su questo linguaggio comune e alcuni dei brani ed arrangiamenti sono stati scritti per buona parte nel corso di questi 5 anni. Per noi è il frutto di tanti anni di lavoro continuo, con un grande investimento di energie, tempo e risorse economiche. Nel disco ci sono racchiuse tante idee musicali, in 12 brani e 78 minuti di musica. Tutte registrate rigorosamente con Pianoforte, Basso Elettrico e Batteria. L’effettistica è al minimo, scelta che abbiamo fatto per stimolarci a cercare idee musicali non nei suoni ma nelle note. L’album rappresenta lo sforzo collettivo del trio, permettendoci di crescere sia come musicisti che come persone. Il nome dell’album, in italiano Esplorare Nuovi Confini, è anche il nostro credo. È una dichiarazione d’intenti. Siamo convinti che i confini siano solo delle linee su delle mappe, che i veri confini al massimo sono nella nostra testa. Uno dei punti cardine che abbiamo cercato di esprimere nel disco è che per noi non esiste una contrapposizione tra i vari generi musicali. Non c’è una musica “classica” contrapposta ad una “jazz”, ad esempio. I vari linguaggi possono coesistere tra loro senza troppi problemi, mostrando come siamo spesso noi musicisti a creare queste divisioni fittizie, che però non hanno alcun riscontro logico. Nella definizione etimologica di composizione c’è il concetto di disporre in maniera (più o meno) ordinata parti diverse. Ogni brano, composizione, sonata o sinfonia è il risultato di tantissimi elementi diversi di diversa natura e origine temporale. Per noi, “liberarci” di questo concetto di genere musicale ci ha permesso di esplorare con creatività cosa si può fare con un trio, senza pregiudizi e limiti. Un altro confine che vorremmo superare è quello dei confini nazionali. Suonare la nostra musica in giro per il mondo è uno degli obiettivi del trio. Questo linguaggio personale nasce anche con lo scopo di presentarsi al mondo musicale internazionale, non con una imitazione di una visione musicale americana, ma con un linguaggio che possa rappresentarci come giovani musicisti e compositori italiani ed europei.

Raccontateci adesso la vostra storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

Il gruppo nasce nel 2018, con l'idea di creare musica originale senza compromessi di natura commerciale. Vogliamo creare musica al livello più alto che riusciamo a raggiungere. Abbiamo cercato di creare un nostro linguaggio, che prendesse ispirazione sia dalle nostre radici classiche che dalle nostre radici jazzistiche e rock. Un linguaggio non limitato a un genere predefinito, in cui improvvisazione e parti scritte si intrecciano fluidamente. Si potrebbe parlare di musica “Third Stream” volendo. Il gruppo nasce proprio per dare sfogo a questa esigenza creativa di tutti e tre. Il nome del progetto è un gioco di parole. Blewitt è sia una civetta (Athene blewitti), simbolo dell’armonia e della sapienza, sia una dichiarazione di intenti. Non abbiamo paura di fare errori, in quanto crediamo che se vuoi creare qualcosa di nuovo non puoi aver paura di sbagliare. La musica che ci emoziona spesso è quella che ci porta in posti che non conosciamo. Siamo stati invitati su palchi importanti in giro per l’Europa, nel futuro vogliamo continuare a crescere musicalmente e portare la nostra musica in giro il più possibile.

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per voi cosa rappresenta?

Per noi Exploring New Boundaries è stato tutti e tre. Il lavoro di anni è sintetizzato nelle 12 tracce, brani in cui abbiamo racchiuso tantissime idee, impegno ed energie. Per il nostro primo disco abbiamo voluto dare il massimo. È anche una fotografia di ciò che siamo e dell’esperienza di registrazione in Germania e di tutto quello che ci ha portato fin lì. Uno dei significati di Exploring New Boundaries è quello di voler andare oltre i confini nazionali, e da questo punto di vista speriamo sia un inizio, un punto di partenza.

Se parliamo dei vostri riferimenti musicali cosa vi viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per voi sono stati davvero importanti?


La lista dei nostri riferimenti musicali sarebbe vastissima. L’essenza stessa del linguaggio sincretico che cerchiamo di sviluppare nella nostra musica nasce soprattutto dall’aver ascoltato e suonato tanti generi musicali. Oggi ognuno di noi ha in tasca l’intera produzione discografica mondiale, è una cosa senza precedenti che sicuramente sta avendo un forte impatto sulla musica e sui musicisti. Corea, Ravel, Shorter, Hancock, Bartok, Piazzolla, Jobim, Basie, Gordon etc. Sicuramente dai due standard di Exploring New Boundaries (più il “Fuoco di Lauridsen”) e dalle 4 cover di Con “Ouverture” ci si può fare un’idea!

Come vedete il vostro progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla vostra musica?

Sul piano musicale stiamo continuando la sperimentazione con altra strumentazione, batterie elettroniche, synth, samples, fx etc. Abbiamo iniziato con Ouverture questo tipo di esperienza e crediamo che andare oltre i confini sia anche abbracciare in toto le sonorità della Drum&Bass, EDM, Hip Hop, Trap, Trance, Ambient e in generale tutto ciò che è prodotto in the box. Exploring New Boundaries è un disco registrato completamente live, con strumentazione che in molti generi è d’altri tempi. Siamo fieri e felici della scelta fatta, sentiamo che allargare la scelta di strumentazione sia una lama a doppio taglio, ma che contemporaneamente certe sonorità si possono abbracciare veramente solo entrando in contatto con gli strumenti di quei generi. Noi crediamo profondamente che non ci siano generi musicali di serie A e di serie B, e che i migliori dischi non siano stati fatti guardando al passato ma al presente se non al futuro.

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: avete qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Sul piano concertistico stiamo progettando un tour per l’Italia per presentare il disco sul palco, esperienza a cui siamo legati e in cui diamo tutti noi stessi. Al momento stiamo scrivendo nuovo materiale, anche in luce alla collaborazione con altri artisti come Rosario Giuliani, e delle sperimentazioni “in the box”. Seguiteci sui nostri Social per maggiori news!

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Il Melting pot culturale degli Extra Sauce nel disco d’esordio Extravaganza

Extravaganza è il disco d’esordio del progetto Extra Sauce, recentemente uscito per l’etichetta Emme Record Label. Otto sono i membri che fanno parte di questo Ensemble, ovvero Alessio Lucaroni alla batteria e Simone Chiavini alle percussioni sono il motore del ritmo, accompagnati da Ruggero Bonucci al basso; Santiago Fernandez alle tastiere e Federico Papaianni alla chitarra sono gli artefici dell’armonia. L’album rappresenta il risultato dell’incontro tra influenze rock, jazz e funk. Ecco il racconto della band a Jazz Agenda.

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: vi va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Extravaganza è il nostro disco di esordio, il nostro primo vero lavoro come gruppo. L’album è stato così intitolato sia per indicarne il contenuto, stravagante dal punto di vista tematico e sonoro, sia per presentare il nostro percorso musicale come ensemble, influenzato da un mix di generi che ci rappresentano. Il nostro obiettivo è quello di introdurre gli ascoltatori, in particolar modo quelli che meno conoscono il genere, al mondo della musica strumentale tramite pezzi carichi di groove ed energia.

Raccontateci adesso la vostra storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

Il progetto nasce nel 2020 per una fortuita serie di incontri musicali mischiata a un pizzico di follia e tanta voglia di suonare. L’idea sin da subito è stata quella di creare un melting pot musicale, un ensemble di musicisti che fosse una via di mezzo fra un gruppo e una big band. Nonostante il momento sfortunato, che ci ha costretti a rimandare buona parte dei progetti per qualche tempo, il gruppo ha continuato a espandersi fino a raggiungere l’attuale formazione, stabile ormai da più di un anno. Il nostro più grande punto di forza (o la nostra fortuna) è senza dubbio essere tutti sulla stessa lunghezza d’onda ed essere in qualche modo complementari l’uno con l’altro.

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per voi cosa rappresenta?

Per noi Extravaganza è sicuramente un punto di partenza. Abbiamo tante idee e tanta musica da scrivere che non vediamo l’ora di portare sia live che nei nostri prossimi lavori in studio. Inoltre, abbiamo anche un gran numero di attività legate al nome Extra Sauce che, sebbene non riguardino strettamente la produzione musicale, attendiamo con ansia di poter cominciare a condividere con chi ci segue e con tutta la realtà musicale umbra.

Se parliamo dei vostri riferimenti musicali cosa vi viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per voi sono stati davvero importanti?

Essendo il gruppo un mix di influenze e culture musicali diverse è difficile elencare tutti gli artisti che hanno impattato in maniera significativa sia sul nostro suono che sul modo in cui componiamo. Possiamo però dire che Marcus Miller, con la sua esibizione a Umbria Jazz alla quale tutti noi eravamo presenti, sebbene non ci conoscessimo ancora, è stato una forte ispirazione per tutti. Oltre a lui Snarky Puppy, Huntertones e Michael Brecker sono alcuni tra gli artisti a cui più ci ispiriamo nel nostro lavoro.

Come vedete il vostro progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla vostra musica?

Stiamo già lavorando al nostro prossimo album, sperimentando con nuove sonorità  e strumenti oltre che strutturando molti progetti collegati a Extra Sauce, dei quali speriamo di poter parlare presto con maggior dettaglio. Speriamo di poter continuare a crescere sia singolarmente che come ensemble e di poter diventare un punto di riferimento per il genere.

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: avete qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Abbiamo date in Umbria, Toscana e Lazio nel prossimo futuro, in Piemonte più avanti e ci stiamo muovendo anche in Germania e Inghilterra. A breve annunceremo date e luoghi dei concerti imminenti. Vi aspettiamo!

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A Sound in Common: quando il jazz mainstream si contamina con “Il nuovo”

A Sound in common è il primo disco del quartetto composto da Francesco Patti, Andrea Domenici, Giuseppe Cucchiara e Andrea Niccolai, recentemente uscito per l’etichetta GleAM Records. Un album in cui spicca la partecipazione di un colosso della musica come Peter Bernstein caratterizzato dall’amore per il jazz tradizionale ma anche per i linguaggi più moderni. Ecco il racconto della band a Jazz Agenda.

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: vi va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

“Dunque, ‘A sound in Common’ è stato registrato a New York nel novembre del 2022 ed è stata un’emozione unica poterlo registrare negli studi di Sear Sound che sono appunto tra i più importanti della città. Inoltre l’opportunità di registrare con un colosso come Peter Bernstein è stata come vivere un sogno. Peter è una persona meravigliosa che in poche ore ci ha illuminati, incoraggiandoci e facendoci sentire completamente a nostro agio. Come se lo conoscessimo da tanto tempo. Esperienza indimenticabile che ha sicuramente marcato notevolmente il nostro percorso.”

Raccontateci adesso la vostra storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

“Il quartetto nasce in una maniera abbastanza naturale. Essendo quasi tutti residenti nella grande mela, dopo qualche session casalinga, seguita sempre da grandi mangiate all’italiana, abbiamo deciso di allestire un piccolo tour estivo in Italia. Dopo quel tour, tornati a New York, senza pensare troppo ai vari dettagli abbiamo deciso di prenotare una giornata in studio.”

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per voi cosa rappresenta?

“Esattamente.  Si tratta proprio di una fotografia del momento che ci permette di fissare un periodo della nostra carriera, del nostro modo di suonare e di scrivere. Sicuramente è stato un bel punto di arrivo, ma adesso anche un punto di partenza. Senz’altro un’esperienza del genere ti stimola ad andare sempre avanti e alla ricerca di nuovi orizzonti.”

Se parliamo dei vostri riferimenti musicali cosa vi viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per voi sono stati davvero importanti?

“Abbiamo deciso di chiamare l’album “A sound in Common” anche perché i nostri gusti musicali sono abbastanza vicini. Siamo tutti profondamente innamorati del “vecchio jazz”, come direbbe qualcuno, e quindi del mainstream, il bebop, l’hardbop etc - ma anche di quello nuovo! Ognuno di noi poi ha ovviamente i propri punti di riferimento ma la nostra affinità è stata sicuramente fondamentale per la riuscita di questo progetto.”

Come vedete il vostro progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla vostra musica?

“Ci auguriamo sicuramente di continuare a crescere come band, a scrivere nuova musica e a divertirci sul palco. Non abbiamo particolari aspettative, sarà la musica a guidarci.”

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: avete qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

“Si, abbiamo in programma qualche gigs di presentazione qui a New York e poi stiamo lavorando per un piccolo tour italiano quest’estate. Inoltre abbiamo già pensato che ci piacerebbe molto ritornare in studio per un secondo album.”

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Tetrad Quartet, Even Odds: “L’esplorazione è il nostro filo conduttore comune”

Pubblicato dall’etichetta Filibusta Records, Even Odds è il disco d’esordio dei Tetrad Quartet, progetto nato alla fine del 2021 dall’incontro spontaneo di quattro musicisti di diversa estrazione. Il quartetto è composto da Gianluca Manfredonia al vibrafono, Armando Iacovella alla chitarra, Alessandro Del Signore al contrabbasso e Alessandro Forte alla batteria. I brani, pur mantenendo una comune influenza derivante dalla passione per il jazz e le sue diverse declinazioni si caratterizza per un sound moderno e sfugge da qualsiasi definizione di genere. Ecco il racconto della band a Jazz Agenda.

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: vi va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

“Il disco, dal titolo 'Even Odds', è il frutto condiviso di circa due anni di lavoro del quartetto. Esso è costituito interamente da brani originali composti da vari membri della band. I brani del repertorio,  nonostante la loro eterogeneità in termini di scrittura e tessitura sonora, manifestano un comune filo conduttore nell'esplorazione, soprattutto ritmica, e nell'alternanza tra momenti di scrittura e momenti di improvvisazione. L'espressione 'Even Odds' va in tal caso quasi a sottendere la ricerca di un equilibro tra elementi del linguaggio musicale tra loro contrapposti (ad esempio la coesistenza di tempi pari e dispari), che riescono  a trovare una sintesi unitaria in un sound unico e ben definito.”

Raccontateci adesso la vostra storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

“Tetrad è nato alla fine del 2021 da una serie di incontri spontanei che hanno portato a far emergere un comune desiderio, da parte di ciascun membro, di condividere la propria personale ricerca artistico/musicale nel gruppo. Difatti, appena manifestatasi la presenza di un terreno fertile per la creazione musicale, nel giro di un solo anno di attività la band è riuscita a mettere su un repertorio complesso e ben rodato soprattutto mediante il lavoro in sala prove e l'esecuzione dal vivo. Una volta maturato il repertorio, il passo naturalmente successivo è stato quello di recarci in studio di registrazione per incidere il nostro primo disco.”

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per voi cosa rappresenta?

“Questo disco per noi rappresenta una fotografia del momento. In particolare potremmo dire che, essendo il nostro primo album, è stato vissuto da ognuno di noi con stupore e curiosità durante tutto il processo di ideazione e registrazione, non sapendo alla fine che faccia avrebbe potuto avere. Un prodotto che sicuramente si è basato sulla condivisione e la cooperazione e dove ognuno è stato parte integrante della realizzazione di questo primo scatto fotografico.”

Se parliamo dei vostri riferimenti musicali cosa vi viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per voi sono stati davvero importanti?   

“Riteniamo che una delle caratteristiche più interessanti del nostro progetto sia proprio nell'eterogeneità delle influenze musicali riscontrabili all'interno delle varie composizioni. Questo perchè, nonostante i brani siano stati inizialmente composti dai singoli membri del quartetto, in sede di arrangiamento ognuno ha portato la propria sensibilità musicale, costituita inevitabilmente dal proprio background di ascolti e riferimenti, all'interno della stesura definitiva dei brani. Potremmo citare tantissimi artisti che, senza dubbio, sono motivo di ispirazione costante per il nostro sound e per la nostra crescita musicale: Wolfgang Muthspiel, Brian Blade, Simon Moullier, Ari Hoenig, Kurt Rosenwinkel, Dave Holland, Steve Coleman, Ralph Towner, Paul Motian, Bill Frisell, Liberty Ellman e tanti altri.”

Come vedete il vostro progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla vostra musica?

“In questo momento siamo molto concentrati sull'uscita del disco e stiamo lavorando alacremente per cercare di portarlo dal vivo nel maggior numero di contesti musicali possibili. Sicuramente i concerti che faremo ci daranno l'opportunità di sperimentare il repertorio in modi sempre diversi e stimolanti, il che ci darà anche lo spunto per pensare alla scrittura di nuove composizioni. La direzione che intraprenderemo nessuno può prevederla, e crediamo che questo non faccia altro che stimolarci nel tentare di scoprirlo strada facendo!”

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: avete qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

“Proprio in questi giorni abbiamo in programma la registrazione di un live in studio presso gli Abbey Rocchi Studios di Roma, per aggiungere materiale a quello del disco e capire l’evoluzione e la maturazione del nostro sound. In programma ci sono delle date per i primi mesi del 2024, tra cui la presentazione ufficiale del disco alla Casa Del Jazz. In più stiamo chiudendo delle date per i festival estivi per il 2024, sarete aggiornati su tutto!”

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Dario Piccioni racconta il suo ‘Hortus del Rio’: un disco ricco di contaminazioni

Pubblicato dall’etichetta Filibusta Records, Hortus del Rio è il terzo disco da leader del bassista e contrabbassista Dario Piccioni. Un lavoro in cui il jazz contemporaneo incontra la tradizione in un viaggio interiore dove groove e ritmi più energici si sposano con melodie dirette e suoni provenienti da altre culture. Completano la band Vittorio Solimene al pianoforte e al fender rhodes, Michele Santoleri alla batteria ai quali si aggiungono in quattro brani Antonello Sorrentino alla tromba e in un brano e Veronica Marini alla voce. Ecco il racconto di Dario Piccioni.

Per cominciare l'intervista parliamo subito di questo disco, ricco di contaminazioni. Vuoi descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

"Il disco senza dubbio è ricco di contaminazioni. Anche nei primi due album avevo lavorato in questa direzione, accostando al sound di matrice jazzistica delle idee frutto di esperienze di viaggi di studio e di concerti in Spagna, Turchia, Grecia, dove mi ero approcciato, ad esempio, alle musiche gitane e a quelle di repertorio per oud, saz e bouzuki. Non si trattava di un' accurata ricerca etnomusicologica, bensì di suggestioni personali frutto di una passione viscerale per quei suoni e armonie. Ho voluto continuare questo lavoro sulle contaminazioni in questo terzo disco, continuando a fare ricerca sulle possibilità di sviluppare un linguaggio personale di jazz contemporaneo, questa volta facendo leva sulla mia passione per la musica brasiliana. Tra il 2013 e il 2017 a Roma ho avuto la fortuna di conoscere e di suonare con diversi musicisti che provenivano da varie città del Brasile (tra i tanti cito il chitarrista di Rio De Janeiro Robertinho De Paula, figlio del grande Irio De Paula) in seguito, ascoltando dischi di Hermeto Pascoal, Egberto Gismonti, Joao Donato, Maria Joao, Flora Purim, Azimuth, Airto Moreira, Filo Machado, ho potuto apprezzare un certo filone della musica brasiliana, anch'esso a sua volta contaminato, legato al jazz, alla fusion, alla world music.

Anche la frequentazione di importanti musicisti ed esperti italiani, che da tempo si interessavano all'universo brasiliano è stato decisivo; cito ad esempio il conduttore radiofonico Max De Tomassi, con il suo programma "Brazil" di Radio Rai 1, dove ho avuto, tra l'altro, il piacere di suonare con varie formazioni; Eddy Palermo, grande chitarrista con cui ho avuto la possibilità di approfondire i classici dello choro, della bossa nova, del samba jazz come, Pixinguinha, Jobim, Menescal, Sergio Mendez e molti altri. L'idea di partenza di "Hortus del Rio" è stata cercare di sviluppare un suono di jazz contemporaneo innestando richiami, ritmici, timbrici, melodici tratti dal mio stato attuale di ascolti ed esperienze nell' "Universo Brasile"; lascio a chi vorrà ascoltare il disco scoprire questi richiami nelle singole tracce."

Hortus del Rio il titolo di questo disco ha un significato particolare per te?

"Il titolo di questo disco Hortus del Rio è l'unione tra una parola latina ed un'altra portoghese. Volevo rappresentare l'idea alla base di questo lavoro cioè l'unione tra la musica brasiliana e la mia esperienza del suonare jazz a Roma. Con "Hortus", "giardino" in latino, mi riferisco a una zona verde in cui ho vissuto l'infanzia, nella zona sud-ovest di Roma, molto vicina al Tevere, il "rio".”

Raccontaci adesso il percorso di questo disco: come è nata la band e come si è evoluta nel tempo?

“Vittorio Solimene è sempre stato presente nei miei progetti da bandleader, con la sua conoscenza della tradizione jazz pianistica e la sua apertura a nuove sperimentazioni. Con Michele Santoleri, ci siamo conosciuti a Piacenza al concorso nazionale per gruppi jazz "Chicco Bettinardi"; qualche mese dopo lo contattai perché il batterista con cui suonavo prima si era trasferito a Londra. Da quel momento è entrato a far parte stabilmente nel trio. Nelle precedenti produzioni, come in questa, ho lavorato con il trio ma inserendo dei guest: il grande sassofonista Eugenio Colombo nel primo disco al sax soprano, Daniele Di Pentima alle tabla. Poi a Veronica Marini alla voce ed il trombettista Antonello Sorrentino, entrambi presenti anche in questo disco.”

Un disco per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per te cosa rappresenta?

“Il disco rappresenta un periodo in cui ho accettato di rimanere a Roma, un momento di stasi, in cui purtroppo si sono dovuti interrompere i progetti di viaggi, trasferimenti, residenze artistiche. Hortus del Rio rappresenta una visione personale di Roma e del mio quartiere, che ho voluto stravolgere in un caleidoscopico affresco sonoro. Ho ripensato luoghi in cui coesistono memorie di infanzia in uno scenario utopico di fusione culturale.”

Volendo parlare dei tuoi riferimenti musicali cosa ti viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per te sono stati davvero importanti?

“Hermeto Pascoal, Egberto Gismonti, e Maria Joao, cantante e compositrice portoghese. Fuori dal Brasile attualmente sto ripercorrendo il lavoro di Tom Harrell, Chick Corea, Dave Holland, e il loro stile compositivo.”

Essendo un disco ricco di contaminazioni le evoluzioni future possono essere infinite. Hai in mente già delle nuove idee, da mettere in cantiere?

“Continuerò senza dubbio in questa direzione con il mio nuovo lavoro già in cantiere, che andrò a sviluppare durante la mia residenza artistica presso l'istituto italiano di cultura di Città del Messico, ad aprile 2024.”

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: hai qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

"Di ritorno da una tournée in Cina (da dove scrivo ora) e da una serie di concerti in Francia a febbraio, il 22 marzo sarò al Bourbon Street a Napoli. Di prossima pubblicazione un nuovo lavoro in collaborazione con due grandi della scena romana, il flautista e sassofonista Paolo Innarella ed il batterista Lucrezio de Seta, un disco pianoless incentrato principalmente sull'improvvisazione, con alcune mie composizioni.

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Il sogno alternativo di Diego Bettazzi: ‘Esperienze di vita e sensazioni tradotte in musica’

Pubblicato dall’etichetta WOW Records, Alternate Dream è il disco d’esordio del sassofonista e compositore Diego Bettazzi alla testa di un quartetto completato da Lewis Saccocci al piano e fender rhodes, Alessandro Bintzios al contrabbasso e Cesare Mangiocavallo. Un lavoro dal grande senso melodico che rispetta il linguaggio della tradizione e allo stesso tempo si distingue per un sound moderno e composizioni fuori dagli schemi. Il quartetto è nato nel 2022, punto di partenza che ha portato alla creazione di un concept album dal grande lirismo dove passato e presente si incontrano. Ecco il racconto del leader della band a Jazz Agenda.

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: vi va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

“Certamente! Attraverso i brani che compongono la suite (ultimamente mi piace chiamare in questo modo Alternate Dream) raccontiamo un sogno. Spesso quando sogniamo non viviamo storie di senso compiuto e passiamo da un luogo ad un altro senza capirci molto. Attraverso i brani, dunque, viene raccontata questa storia particolare: dopo un viaggio in cammello ci si ritrova in una cittadina surreale dove i punti di interesse sono le mie esperienze di vita e le mie sensazioni che vengono tradotte in musica.”

Raccontateci adesso la vostra storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

“Diciamo che il progetto era in cantiere da un po’. Il primo brano è stato scritto nel 2020, l’ultimo qualche giorno prima di andare in studio (Foosball Arena). Quando ho cominciato a scrivere questo album non avevo bene le idee chiare del prodotto finale, ho pensato solamente a raccontare una storia legata alle mie esperienze e alle mie emozioni e al fatto che i brani avrebbero dovuto avere un sound che facesse da filo conduttore. La cosa simpatica è che prima del titolo definitivo i brani hanno cambiato nome più di una volta, c’è sempre stato il sogno di mezzo ma non trovavo la quadra! Poi, dopo aver scritto Foosball arena tutto è diventato tutto più chiaro (all’inizio si chiamava biliardino blues), anche s qualche brano lo chiamiamo ancora col vecchio titolo. Poi una volta scritti i brani ho chiamato Lewis Saccocci per vedere cosa ne pensasse e gli sono piaciuti e dopo il suo prezioso confronto, ho dato vita al quartetto aggiungendo Alessandro Bintzios e Cesare Mangiocavallo. Il loro contributo è stato enorme!”

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per voi cosa rappresenta?

“Sono folle se rispondo all in? Un punto di arrivo perché alla fine un disco è quasi sempre la fine di un percorso di ricerca, un punto di partenza perché è il disco di esordio del Diego Bettazzi Quartet. Non è un caso che l’ultimo brano si intitola Hope’s House, la casa della Sig.ra Speranza che volge lo sguardo con speranza verso il futuro. È poi una fotografia del presente perché attraverso il linguaggio dell’improvvisazione esprimiamo e raccontiamo quello che sta accadendo in quell’istante, anche se stiamo raccontando cose passate o cerchiamo di augurarci un piacevole futuro: almeno in Alternate Dream è così.”

Se parliamo dei vostri riferimenti musicali cosa vi viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per voi sono stati davvero importanti?

“Ce ne sono tanti da Coltrane a Shorter, Kenny Garret, Miles Davis, Dick Oatts  e Ornette Coleman tra i sassofonisti. Poi, almeno per me, i grandi delle Big Band: Count Basie, Duke Ellington, Thad Jones, Gill Evans.”

Come vedete il vostro progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla vostra musica?

“In realtà on lo so! Spero intanto che questo progetto abbia la possibilità di girare. In futuro credo che si evolverà in qualcosa di completamente diverso.”

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: avete qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Come dicevo prima, adesso vorrei pensare a far girare Alternate Dream il più possibile. Lo presenteremo alla Casa del Jazz di Roma Sabato 3 febbraio 2024, siamo a lavoro per altre date e sarebbe bello riuscire a fare un mini tour.

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